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Una sentenza scomoda, ma discutibile

di Antoine Fratini, pubblicato il 11/05/2011, fonte Associazione Europea di Psicoanalisi

tag: psicoanalisi, psicoanalisi laica, esercizio abusivo professione, psicoterapia

La recente sentenza della Corte di Cassazione 14408 del 11 Aprile 2011 che condanna una psicoanalista non iscritta all’Ordine degli Psicologi per il reato di prestazione abusiva della professione di psicologo e di psicoterapeuta, e per la quale i portavoce dell’Ordine esultano come se si trattasse di una partita di calcio dove il risultato contasse di più del bel gioco espresso dalla propria squadra [1], riapre sicuramente il discorso sull’inquadramento giuridico e sulla difesa della psicoanalisi in Italia. Vorrei attirare l’attenzione sui seguenti punti del documento:

1. Il reato per cui l’imputata è stata dichiarata colpevole non è “esercizio abusivo della professione di psicoanalista”, ma “esercizio abusivo della professione di psicologo e di psicoterapeuta”.

2. Vi è nel testo della sentenza una totale assenza di accenno alla distinzione, pur feconda, tra psicoanalisi e psicoterapia analitica, la quale fa pensare che, forse, in fase dibattimentale tale distinzione non sia stata adeguatamente affrontata. Si tratta di un punto la cui fondamentale importanza è riconosciuta persino in ambito accademico. Nel libro Psicologia clinica [2], rivolto agli studenti universitari, Ezio Sanavio, docente di psicologia all’Università di Padova, luminare della psicologia accademica italiana e non certo un sostenitore della psicoanalisi libera, afferma infatti che: “Come si è visto, Freud è esplicito nel sostenere il primato della psicoanalisi come metodo d’indagine rispetto alla psicoanalisi come metodo di cura. Secondo Freud ‘l’eliminazione dei sintomi non viene perseguita come meta particolare, ma si produce con l’esercizio regolare dell’analisi come un risultato accessorio ’. Da ciò la distinzione tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica, che si differenzia dalla prima perché più direttamente finalizzata al miglioramento del malessere ed alla risoluzione dei sintomi”. Inoltre, egli afferma che la scopo della psicoanalisi è “di ripercorrere la storia personale facendo emergere ed elaborando le rappresentazioni inconsce che dominano la vita del soggetto: immagini di sé, fantasie, paure, meccanismi di difesa ecc. Tale percorso tende ad una riorganizzazione del mondo interiore della persona, cioè del suo modo di sentire e di pensare”. La psicologia accademica italiana, quindi, distingue nettamente tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica, distinzione che da sola potrebbe accontentare sia i partigiani della psicoanalisi come metodo di cura che quelli della psicoanalisi come metodo conoscitivo. Ma, evidentemente, la motivazione latente dell’Ordine non è tanto quella di perseguire la verità quanto quella di perseguire gli psicoanalisti stregoni… nella speranza di purificarli dal Male (e di sbarazzarsi della loro concorrenza)!

3. Secondo il giudice “la psicoanalisi, quale quella riferibile alla condotta della ricorrente, è pur sempre una psicoterapia che si distingue dalle altre per i metodi usati per rimuovere disturbi mentali, emotivi e comportamentali”. Si tratta di un passo molto importante al fine di delineare il senso di questa sentenza che può apparire ad una prima lettura superficiale determinante nel collocare la psicoanalisi nella categoria regolamentata della psicoterapia, ma che ad una lettura più attenta dimostra di riferirsi alla “psicoanalisi, quale quella riferibile alla condotta della ricorrente”, condotta sulla quale il testo della motivazione appare alquanto laconico e quindi non consente di esprimere commenti né tanto meno pareri. In sintesi, la sentenza si riferisce non alla psicoanalisi tout court, ma a quella psicoanalisi che dal dibattimento è risultata al giudice essere praticata dall’imputata.

4. Più avanti però, la stessa frase riporta il passo seguente che sembra contraddire la riserva di cui sopra: “… posto che l’attività dello psicoanalista non è annoverabile fra quelle libere previste dall’articolo 2231 c.c. ma necessita di particolare abilitazione statale”. E ancora: “né può ritenersi che il ‘ metodo del colloquio ’ non rientri in una vera e propria forma di terapia, tipico atto della professione medica, di guisa non v’è dubbio che tale metodica, collegata funzionalmente alla cennata psicoanalisi, rappresenti una attività diretta alla guarigione da vere e proprie malattie (ad esempio l’anoressia) il che la inquadra nella professione medica…”. Queste affermazioni, scevre di adeguate argomentazioni, stupiscono in quanto suggeriscono che il semplice colloquio sia un “metodo di guarigione” riservato addirittura ai medici! D’ora in poi ai non medici verrà forse proibito colloquiare con metodo? Ma l’inquadramento giuridico di una disciplina non dovrebbe poggiare su basi teoriche chiare ed univoche inerenti a quella stessa disciplina? Come può un giudice, sprovvisto di adeguata conoscenza in materia, tranciare su di una questione che un secolo di controversie da parte di eminenti studiosi non sono riuscite a risolvere?

Alla luce di tali considerazioni, più che al reato di abuso della professione di psicoterapeuta questa sentenza sembra riferirsi ad un reato di opinione: quella opinione di chi ritiene, in accordo con una intera comunità scientifica, che la psicoanalisi non persegue i fini della e non è assimilabile alla psicoterapia. Che una controversia culturale debba scomodare le aule di giustizia per colpa della malafede e del comportamento inquisitorio di una corporazione, quella dell’Ordine, frustrata per la propria inutilità sociale, è una vergogna purtroppo significativa del declino della democrazia italiana.

Note

Nota 1 (torna al testo). Vedi per esempio il blog: http://nicolapiccinini.it/cassazione-colloquio-psicoanalisi-psicoterapia/2011/05/

Nota 2 (torna al testo). E. Sanavio, C. Cornoldi, Psicologia clinica, Il mulino, Bologna 2001 p.159/161.



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